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Chiesa SS.Crocifisso   freccia

La parrocchia del SS. Crocifisso fu eretta con Bolla del 7 aprile 1857 da Mons. Marino Paglia nella chiesa di S. Benedetto. Prese tale intitolazione in ragione della presenza, nell'antico tempio, della veneratissima croce lignea dipinta, risalente alla seconda metà del XIII secolo, ora conservata nel Museo Diocesano.
Successivamente, nel 1878, a seguito di un'ordinanza comunale, che richiedeva lo sgombero per usi militari della chiesa e del monastero di S.Benedetto, fu trasferita nella chiesa di S.Maria della Pietà di Portanova, che da allora acquisì la nuova denominazione di SS. Crocifisso.
Collocata al confine orientale della città medievale, in prossimità delle antiche fortificazioni cittadine e dell'ingresso alla via Drapparia, ora via dei Mercanti, che definiva al nord l'Orto Magno e al sud la Giudaica, quartiere degli Ebrei, la chiesa di S.Maria della Pietà e il monastero annesso, dovevano un tempo provvedere all'accoglienza dei pellegrini.
In mancanza di documenti che ne testimonino l'edificazione, gli studiosi, dall'esame delle caratteristiche costruttive, l'hanno, variamente, inquadrata cronologicamente tra i secoli X e XII. Menzionata a partire dal 1219 come ecclesia sancta marie de Portanova, negli atti del Sinodo Colonna del 1579 viene denominata ecclesia S. Mariae de Pietate dal monastero femminile Ordinis Minorum de Observantia attiguo ad essa.
Attualmente, la chiesa, spogliata dal rivestimento barocco che nascondeva le strutture originarie, mostra ancora significative testimonianze della primitiva edificazione. All'interno, l'impianto è di tipo basilicale, con le tre absidi rivolte ad oriente e le tre navate scandite da archi a tutto sesto in muratura listata, poggianti su colonne e capitelli di spoglio; la navata centrale, più alta rispetto alle laterali, è sormontata da capriate lignee e percorsa, al di sopra delle arcate, da un lungo cornicione e da una serie di monofore che si aprono lungo le pareti; sulle navate laterali si impostano volte a crociera. Risalente alla stessa fase edificatoria è, nella parte esterna, il massiccio muro che prospetta su via dei Mercanti, caratterizzato da monofore incorniciate da conci e da un partito di piccole mensole. Recentemente, sulla suddetta muratura, a seguito della rimozione di vetrine, sono emersi due elementi particolarmente interessanti: un portale in pietra, forse un antico accesso laterale, ed una finestra ogivale in stucco. L'apertura, che occupa parte di una delle campate della navata sinistra della chiesa, o meglio la bifora, anche se mancante della colonnina centrale, è divisa in due scomparti da un'architrave : nell'ordine superiore è presente un articolato motivo a traforo, arabeggiante, costituito dall'alternanza di croci e stelle ad otto punte; nell'inferiore, due colonnine impostano l'ogiva, che è delimitata da una fascia su cui sono distribuiti sette scudi; purtroppo solo su uno di essi è riconoscibile l'insegna, a bande orizzontali, bianche e rosse, della famiglia dei Carafa. L'episodio, che meriterebbe ulteriori approfondimenti, non è unico nella nostra città: difatti aperture analoghe sono presenti nel monastero benedettino di S. Sofia, sulla parete prospiciente via Trotula de Ruggiero e sulla facciata del Duomo, in corrispondenza della loggia del nartece, databili tra il XII ed il XIII secolo; un analogo esempio di bifora ogivale architravata lo ritroviamo sull'abside della chiesa di S.Maria d'Episcopio a Scalea (Cosenza) datata al XII secolo. Tuttavia è ancora più stringente il rapporto stilistico-formale tra il motivo a traforo della bifora salernitana con quello, identico a croci e stelle, di una balaustra marmorea del duomo di Amalfi, ciò ad evidenziare, ancora una volta, la stretta relazione culturale che le due città hanno avuto con il mondo islamico nel Medioevo.
Riprendendo in esame le vicende della chiesa, dai documenti degli archivi parrocchiali si desume che nel 1622 il cardinale Lucio Sanseverino soppresse la parrocchia, dandola in affidamento alle Clarisse, le quali, successivamente, diedero il via alle trasformazioni barocche a cui si è già fatto cenno. I grafici delle decorazioni interne realizzate da Giuseppe D'Alessio nel 1692, conservati presso l'Archivio di Stato di Salerno, testimoniano della nuova veste assunta dall'edificio. Di questa permangono le cornici in stucco, tra le monofore della navata centrale, contenenti dipinti con santi e sante francescani, coevi alle decorazioni.
La chiesa conserva un esiguo patrimonio artistico: da segnalare gli affreschi tardo-manieristi, visibili sotto l'altare dell'abside destra, con i Santi Martiri Clemente, Paolina e Cassiano ed un grande Crocifisso, pregevole esempio di scultura lignea settecentesca. Risale, invece, al 1961 il grande mosaico riproducente l'affresco della cripta, fatto realizzare da maestri ravennati.
Rimaneggiamenti sostanziali sono stati, ripetutamente, effettuati sulla facciata della chiesa.
Nel 1928, il Comune demolì le costruzioni che le si addossavano dando spazio all'attuale piazzetta e realizzando la facciata con l'aggiunta di un corpo porticato, che riproduceva lo schema trinavato dell'interno. I danni provocati dall'alluvione del 1954 richiesero nuovi interventi con l'edificazione della moderna facciata e del campanile.

La cripta
La scoperta della cripta avvenne fortuitamente nel 1950, durante i lavori di ristrutturazione conseguenti ai danni provocati dalla guerra, ma la sua esistenza era già stata segnalata dal De Angelis nel 1927.
Quale fosse la relazione tra l’ambiente sotterraneo e la chiesa, non è mai stato del tutto chiarito, infatti, nonostante le ipotesi formulate, è ancora aperto l’interrogativo: potrebbe difatti trattarsi di una chiesa, poi interrata da eventi alluvionali; di due chiese, sovrapposte e coeve; di una cripta realizzata in diretta dipendenza dalla chiesa superiore.
Le recenti indagini archeologiche, effettuate sulle fondazioni, lasciano supporre che, tra l’XI e il XII secolo, la chiesa attuale sia sorta sulla sottostante e che quindi, allo stesso tempo, ciascuna avesse funzioni autonome.
Attualmente, una piccola scala nella navata destra della chiesa, introduce all’ambiente ipogeo, connotato da un’aula basilicale con tre navate separate da due archi e chiuse da corrispondenti absidi semicircolari. Ciascuna navata è divisa in due campate coperte da volte a crociera, che scaricano su pilastri contenenti antiche colonne di spoglio, sormontate da un abaco. Le monofore presenti sulla parete settentrionale sono in corrispondenza con quelle della chiesa superiore. Nel corso dei restauri è stato ricostruito l’altare originario, ritrovato frammentario, ed è stata riaperta la monofora dell’abside centrale. Di fronte ad esso, sulla parete occidentale, inserito in un arco a tutto sesto, campeggia il celebre affresco raffigurante la Crocifissione, riferibile agli ultimi decenni del XIII secolo. In esso la scena si svolge come su di un proscenio teatrale: al di sopra dell’alto basamento mascherato da un panneggio stilizzato a grosse fasce oblique, si staglia il Crocifisso, fulcro della rappresentazione. La drammatica immagine del Cristo patiens, con il capo reclino, le gambe piegate sotto il peso del corpo, i piedi trafitti da un unico chiodo, divide simmetricamente la composizione. Sulla sinistra figura il gruppo delle pie donne, dove la Vergine accasciata, le mani protese verso il Figlio, è sorretta dalle due Marie, cupe ed accorate dal dolore; sulla destra, l’immagine di S.Giovanni – molto deteriorata – è affiancata dalle figure meste di due astanti, riconducibili, secondo il testo evangelico, a Giovanni d’Arimatea e Nicodemo, ma iconograficamente più simili ai Santi Pietro e Paolo, di cui recano anche gli attributi: il rotolo ed il libro. Ai lati della croce sono ritratti i soldati, di dimensioni più piccole rispetto agli altri personaggi, e gli angeli, due adoranti e due che raccolgono nelle coppe il sangue di Cristo che fuoriesce dalle mani e dal costato.
L’episodio si svolge in uno spazio quasi compresso dalla grande cornice che delimita l’arcata, su cui le finte mensole, riprese prospetticamente, sono di evidente derivazione da quelle che Cimabue aveva dipinto nella Basilica di Assisi. La narrazione è tuttavia resa vibrante dall’accostamento tonale dei colori , rossi, bianchi, gialli, bruni, che si stagliano sul cupo fondale notturno e dalla forte carica di emotività che si sprigiona dal diversificato espressionismo dei volti e delle pose, per cui ciascun personaggio diventa autonomo interprete del dramma. Con l’abbandono degli schematismi e delle stereotipate fissità di marca bizantina, l’anonimo autore della Crocifissione, mostra di aver assimilato suggestioni culturali più moderne, già gotiche, - segno di un aggiornamento sulle nuove istanze che andavano maturando nei cantieri assisiati, - innestatandole su di una formazione avvenuta in ambito catalano-roussillonese, di cui il marcato espressionismo è la sigla peculiare, così come più volte è stato rilevato dagli studiosi (Bologna, in primis).
Nella cripta, per concludere è presente anche un altro affresco, nell’abside di destra, che raffigura San Sisto papa tra San Lorenzo ed un altro Santo pellegrino, racchiusi in arcate poggianti su colonne tortili. Nel dipinto si colgono notevoli assonanze con la Crocifissione, anche se la maggiore fluidità nella resa dei panneggi sembrerebbe indice di un’adeguamento allo spirito ‘cortese, di gusto già trecentesco.
IL MONASTERO DI SANTA MARIA DELLA PIETÀ
Anche per quanto concerne il monastero, l’assenza di fonti documentarie non consente di precisarne l’origine.
Negli atti del Sinodo Colonna del 1579 viene citato per la prima volta, insieme alla chiesa adiacente, come monastero femminile di S.Mariae de Pietate, ordinis minorum de Observantia, nel 1650 come Monasterium S.Mariae Pietatis monialium nobelium ed ancora nel 1683 è detto monasterium dominarum monialium de la Piantanova.
Fu soppresso nel 1866 come altri monasteri cittadini ed acquisito dal Comune, che destinò una parte dei locali ad abitazioni private (proprietà Pernigotti) e una parte a Befetrofio Provinciale.
Le pesanti trasformazioni attuate nel corso dei secoli non consentono, purtroppo, di prefigurare l’aspetto originario del complesso che, ubicato tra il quartiere dell’Ortomagno e la Giudaica, doveva estendersi fino al mare. Ciò che oggi ci è ancora permesso di conoscere , è quello che resta di uno splendido loggiato, ornato da tarsie policrome, situato al piano nobile dell’attuale palazzo Pernigotti. La decorazione, ancora visibile sui lati sud ed est dell’edificio, si svolgeva certamente tutt’intorno ad esso. Sul fronte meridionale, la loggia è costituita da quattro arcate, incassate nella muratura di tufo ed il gioco cromatico nasce dalla combinazione di conci di tufo giallo e grigio variamente distribuiti a formare dei motivi.
Sulle ghiere dei quattro archi si sviluppa un ornato costituito dall’alternanza di cuspidi contenenti un cerchio e da elementi geometrici quadrati e romboidali.
Al di sotto delle arcate corre poi una fascia decorata da tre diversi motivi: sul registro inferiore, l’intersezione di cerchi determina visivamente una successione di fiori a sei petali; sul mediano si susseguono piccoli quadrati in cui è incassato un rosoncino; mentre, il superiore è costituito da una cornice aggettante a gola diritta. Ciascuna delle arcate presenta una cornice di coronamento sostenuta da sette mensolette e da due piccoli parallelepipedi laterali, che, a loro volta, poggiano sulle colonnine (ora scomparse) addossate all’imposta dell’arco.
Il gioco compositivo si ripete sul fronte orientale, - anche se un corpo di fabbrica ha sostanzialmente cancellato l’arcata, - su cui sono presenti il coronamento, cinque delle sette mensole, una di questa recante sul fronte un gufo, e due parallelepipedi su cui sono scolpiti due volti femminili che echeggiano plastiche di età federiciana. Su questa facciata, ai lati dell’arcata, sono incassate nell’intonaco due transenne di tufo lavico con motivi diversi di intreccio.
Le tarsie della loggia della Pietà, datate alla fine del XII secolo (Kalby), presentano tuttavia più stringenti analogie stilistiche con i registri decorativi del tiburio del Duomo di Caserta Vecchia e del convento femminile di S.Guglielmo al Goleto, con i quali hanno in comune, inoltre, la più evoluta tecnica costruttiva, pertanto la loro realizzazione si potrebbe far risalire al XIII secolo, periodo che segna il passaggio tra l’età normanno-sveva e quella angioina.

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